” In casa nostra si cercava di “normalizzare” le disabilità altrui attraverso il linguaggio, ma con il tempo mi sono resa conto che questo intento in sé lodevole rischia, soprattutto se le parole non sono accompagnate da azioni molto concrete, di trasformarsi in una pericolosa negazione dell’ evidenza.
Perché un sordo dev’essere chiamato non udente, anziché sordo?…
…Capisco che certi eufemismi nascono dal desiderio di non ferire ulteriormente chi è cieco, sordo, zoppo o non può camminare, ma in realtà servono – forse – a confortare il sano, il disabile non lo aiutano di certo. Per migliorare la vita dei disabili, e di noi abili, e vivere insieme, e fronteggiare le difficoltà – loro e nostre- dobbiamo innanzitutto conoscerci e imparare ad accettarci…”
pag.106 “Nessuno può volare” di Simonetta Agnello Hornby (Feltrinelli)
Colgo l’occasione della lettura di questo libro e di questo brani in particolare, per condividere un tema che mi sta molto a cuore.
Più che un tema, è sempre stata una mia preoccupazione: quali le parole più giuste da usare, quando si parla di disabilità.
Premetto che detesto ogni genere di etichetta, le odio, per me non esistono classificazioni fra persone.
D’altro canto, facendo l’educatrice di sostegno, di frequente “mi tocca” fare riferimento a fragilità altrui che in generale portano il nome di disabilità. Allora inevitabilmente mi si pone il problema di scegliere i termini più corretti per non offendere la sensibilità delle persone, per non stigmatizzare, per non fare discriminazione.
Per certo la definizione “diversamente abile” è, per come lo si usa solitamente, discriminatorio e inappropriato. Inappropriato perchè siamo tutti “diversamente abili”, cioè ognuno di noi è abile in alcune cose e in altre no. Pertanto o lo estendiamo a tutti o lo eliminiamo.
Per trovare soluzioni, mi è stato molto d’aiuto il Prof. Stefan von Prondzinski (Psicopedagogista e tecnico dell’educazione e della riabilitazione in orientamento e mobilità per disabili visivi), che durante un laboratorio a Handimatica 2014, ha fatto un excursus sulle parole utilizzate relativamente al concetto di disabilità:
”Nel 1980 si ha una prima classificazione mondiale della menomazione, della disabilità, dell’handicap: ICIDH. Questa classificazione, nata nell’ ambiente medico, rappresentava un grande progresso. Finalmente non si parlava più di gobbi e ritardati ma di menomazione, disabilità, handicap.
L’handicap era una conseguenza sociale della menomazione.
In Italia, successivamente, da persona handicappata, si è passati a portatore di handicap, in situazione di handicap, persona certificata (sembrava suonare meglio), poi si è arrivati a persona disabile.
Ma l’ICIDH, negli anni ’90, ha ricevuto a livello mondiale grandi critiche perché MENOMAZIONE; DISABILITA’, HANDICAP, sono tutte parole negative. E come si può descrivere una persona solo sotto l’aspetto negativo piuttosto che con le sue potenzialità.
Inoltre questa classificazione ha escluso il contesto. Ma le nostre condizioni di salute, le nostre fatiche sono molto condizionate dal contesto.
Nasce così una nuova visione della disabilità grazie a : ICF – Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute. Con questa Classificazione, la disabilità è il risultato dell’interazione negativa tra le proprie condizioni di salute e i fattori contestuali.”
Fantastico, questo mi ha chiarito moltissimo : non c’è quindi disabilità se il contesto risponde bene a miei eventuali problemi di salute. D’altro canto anch’io posso diventare disabile se mi rompo una gamba pattinando sul ghiaccio e per “n- giorni” devo usare una sedia a rotelle e nel mio condominio non c’è l’ascensore o un servoscala, nei negozi in cui voglio entrare o nei marciapiedi su cui voglio salire non c’è lo scivolo…penso sia sufficiente per capire.
Allora direi che la cosa più giusta sia riferirsi ai fattori di salute personali, se una persona per es. è tetraplegica, la si definirà tale e non persona disabile perché, se il contesto risponde in modo positivo alle sue condizioni di salute, disabile non diventa.
Frequentando per lavoro l’Istituto Cavazza (Istituto dei ciechi di Bologna) e l’ENS (Ente Nazionale Sordi), posso dire con certezza che le persone cieche preferiscono essere definite tali, piuttosto che “non vedenti”; e le persone con compromissione uditiva, sorde.
La mia insegnante di LIS (Lingua dei segni italiana), persona sorda, ha dichiarato che l’etichetta “non udenti” risulta offensiva.
A fronte di tutto questo ritengo sia davvero fondamentale capire come sia importante usare le parole corrette…
P. S. Mi piacerebbe molto che, se qualcuno avesse voglia e tempo, scrivesse qui il suo parere o le sue esperienze.